
Gli editori, in occasione oggi dello sciopero dei giornalisti ai quali non viene rinnovato da 10 anni il contratto di lavoro, hanno fatto sapere che “diversamente da quanto affermato dal sindacato, nell’ultimo decennio hanno realizzato ingenti investimenti a tutela sia della qualità e della libertà dell’informazione, che dell’occupazione giornalistica”.
Ricordano che nel decennio sono dimezzati i ricavi “e si è riusciti a scongiurare i licenziamenti attraverso il ricorso alle norme di settore e ciò è sempre avvenuto con il consenso del sindacato”.
Bene. Solo perché siamo nello stesso settore e prendendo a prestito il “Manuale di linguaggio giornalistico” (Etas Libri) del mai lodato abbastanza Sergio Lepri, faccio rilevare che “sia….. che…” non è previsto dalla grammatica italiana.
Questo errore è significativo di cosa hanno fatto negli ultimi dieci anni gli editori: la più lunga, accanita e costante guerra alla qualità.
L’unica cosa che sanno davvero fare è tagliare: si abbassa la curva dei ricavi (e poi vedremo) e si abbassa la curva dei costi.
Ogni volta si adattano a spostare il “break even point” in basso.
La crisi dell’editoria non è italiana, ma è italiana la risposta stracciona.
Per esempio il più grande gruppo editoriale tedesco, Axel Springer, che, tra l’altro pubblica, la Bild (quotidiano passato da 5 milioni a 100mila copie cartacee).
Cosa è successo ad Axel Springer? Come si gestisce un’azienda che perde il ricavo generato da 4,9 milioni di copie svarite dal 2005?
Axel Springer ha investito (non a chiacchiere), digitalizzato, diversificato.
E siccome il tedesco, come l’italiano, ha un bacino di “parlanti” su scala mondiale abbastanza economicamente insignificante ha acquistato testate edite in inglese e ha tradotto i propri prodotti.
Ha percorso la strada delle alleanze internazionali (KKR, per esempio) e abbracciato la tecnologia (arriva sempre prima in ogni innovazione).
Insomma è quello che si dice “digitale full”.
Risultato: è sempre in utile. E, cosa che non è secondaria per un mondo che alla fine gira sempre sulle notizie, arriva sempre primo.
Memorabili due casi: l’esonero di Carlo Ancelotti da parte del Bayern Monaco (la Bild lanciò la notizia non appena decollò da Parigi l’aereo che riportava a Monaco la squadra, sicchè il resto del mondo dovette per circa 90’ attendere con fiducia) e la seconda l’attentato dei mercatini di Natale a Berlino (notizia data con 30’ di anticipo sul resto del mondo e ricordo ancora la reazione del mio direttore dell’epoca e dei colleghi quando lo dissi e ovviamente com’è nella tradizione non ci credettero!).
Per arrivare 1 servono organizzazioni ben strutturate e numerose, giornalisti di qualità possibilmente non inventati in qualche laboratorio chiamato scuola di giornalismo, disponibilità tecnologiche.
Axel Springer ci ha creduto, agli editori italiani basta solo la parola.
Se ai pazienti lettori non piace il riferimento alla Bild che è estremamente popolare e anche un po’ cafona (per i gusti raffinati dei salotti italiani) nel portafoglio di Axel Springer possono trovare certamente una testata che loro aggrada. Tanto vale per tutti i prodotti del gruppo.
E in Italia? Basta raccontare le gesta del presidente degli Editori, Andrea Riffeser che guida il gruppo editoriale del quale fanno parte La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Giorno e il fascicolo nazionale “Quotidiano Nazionale”.
Quante ristrutturazioni, con prepensionamenti e tagli vari, hanno avuto negli anni questi giornali? Quali elementi di novità ha apportato in 40 e passa anni di guida del gruppo?
E ciò che resta della famiglia Agnelli che in un momento di slancio ha acquistato Republica e tutti i quotidiani locali (aggiungendoli alla Stampa) e poi ne ha cominciato una selvaggia dismissione coinvolgendo nuovi editori che come primo atto hanno fatto gli stati di crisi per tagliare il personale (giornalisti e poligrafici)?
O vogliamo raccontare la storia della Gazzetta del Mezzogiorno?
E uno sguardo ai bilanci non lo vogliamo dare? Ed è solo una sensazione che con il sistema degli acquisti infragruppo si determinino le condizioni per pianificare gli stati di crisi (pagati fino a qualche anno fa dall’Istituto di Previdenza dei giornalisti, privato, e per la gestione principale portato alla chiusura) e fare ulteriori tagli all’occupazione?
Si potrebbe sul punto aggiungere la complicità di tanti giornalisti che in cig o in solidarietà hanno continuato a lavorare compartecipando alla truffa.
E questi sono gli investimenti?
Ora i giornali e i giornalisti saranno anche antipatici all’opinione pubblica che coltiva il mito di approvvigiornarsi direttamente dai social “graduidamente” e che pensa che i giornali sono finanziati dallo stato (ma si dovrebbe sapere che i soldi li prendono solo quelli delle coop, molte diciamo allegre ?, e dei movimenti politici, quindi di quelli che spargono come prima attività veleno e false notizie) ma l’opinione pubblica deve sapere che meno giornalisti professionali nei giornali ci sono e meno notizie (notizie non sono i convegni, le conferenze stampa, i comunicati) saranno cercate e meno si saprà di tante cose. Quelle più delicate anche per la democrazia.
Giacchè quello che gira sui social è in gran parte post produzione, cioè qualcuno trova la notizia per i giornali e gli altri ci ricamano. Peraltro nella follia dei social gli algoritmi penalizzano i post dei giornali, ma esaltano quelli dei vari Lorenzo Tosa di turno (che ovviamente non sciopera e incassa pure oggi).
Ah, è pure di sinistra…..
Straccioni,ipocriti.mediocri,sfruttatori.Editori(?)del Belpaese da cena di Trimalcione
E alcuni giornalisti con l’indicenza di sedere a tavola con loro o di leccare piatti e briciole.Quanti ronzii di Vespa…ronzano all’orecchio?Picchietto, carta moschicida e l’affidabile DDT scomparsi.Concordo.Siamo alle pezze,lacerate…